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venerdì 9 novembre 2012

Un racconto fantasma

Ci sono racconti che ci ricordiamo di aver scritto, ma che non troviamo più. Li abbiamo dispersi in chissà quale angolo del computer o della camera, e più li cerchiamo e più rischiamo di credere di averli voluti scrivere e di non averlo mai fatto. Altri racconti sono stati dimenticati e, ritrovandoli, ci pare non siano nostri. Solo rileggendoli riusciamo a ricordarne la creazione.

In entrambi i casi si tratta di racconti fantasma: esistono? Ci crediamo? 
Ebbene, e se uno di questi racconti parlasse addirittura di fantasmi? 

Il treno fantasma


Il treno cigolava sui binari, qualche scintilla di troppo fischiava sulle rotaie.
Il Vecchio se ne stava alla guida con la schiena ricurva mentre la dentiera scollata si muoveva dondolando come il carro merci: ciondolante rimaneva attaccato a tutto il resto anche se arrugginito, mentre il Vecchio aumentava la velocità per passare le fermate inutili.
Sapeva esattamente, come ogni notte, dove andare a prenderli.
C’era chi tornava, chi partiva e chi non era mai arrivato.
Il buio di quella notte era abitato rispetto a molti altri passati, perché alle fermate erano presenti molti più vivi di quel che avrebbe mai pensato.
Fermato il treno con il classico stridio, vide i morti superare la linea gialla passando poi attraverso le porte senza aprirle.
Era stata gente educata un tempo, mica come quei bulletti in fondo al binario che si lanciavano urlando passando dai finestrini.
E attendendo che tutti salissero un brusio di malcontento gli giungeva alle orecchie: che nessuno di loro dovesse prendere il treno era chiaro, e nel sentire quel rumore così vicino e chiaro il Vecchio quasi si commosse.
A svegliarlo fu la voce ovattata di uno dei passeggeri.
Si ritrasse dal finestrino, perché alle fermate si sporgeva sempre ad annusare l’aria, lo guardò con le cataratte negli occhi, ma non era per quello che lo vedeva sfocato. Perché nel tempo aveva capito quanto fossero chiare le sagome dei fantasmi: con loro non avrebbe mai avuto problemi di vista.
Si tolse gli occhiali e si sfregò le palpebre facendo cadere un paio di ciglia, davanti a lui un individuo dagli abiti logori e dalla barba folta. In mano un avanzo di panino, e in bocca il morso strappato che continuava ad essere masticato.

-Tabacco, sembra che tu stia mangiando tabacco-

Sì perché non poteva certo mandarlo giù.
E il fantasma gli sorrise indicando l’orologio.
Rotto.
Fermo ad indicare tutto e niente: la lancetta vibrava impazzita da un orario all’altro a seconda di chi metteva piede sul treno.
L’ora della loro morte era il biglietto d’entrata.

-Va a sederti, non puoi stare qui. Qui ci sto io, io guido il treno,-

E il fantasma ascoltò il vecchio, ma mentre lui stava uscendo una ragazzina entrò con i capelli zuppi d’acqua gocciolante.
Le labbra cianotiche e le occhiaie le davano l’aspetto di una bambolina di porcellana.

-Ciao Vecchio!- così lo chiamavano, così lui era.

-Non sta bene dare del vecchio. Va a sederti, qui ci sto io. Io guido il treno.-

Era una nenia la sua, dopo anni di abitudine.

-Vecchio, ma tu non muori mai?-

-Che domanda è?!- si girò con in mano la chiave inglese più grande e rossa che la bambina avesse mai visto.

-Certo che morirò! Sono un uomo io!- sventolava alterato quell’oggetto facendole paura.

-E se mi colpisci?- gli disse indicando con l’indice l’arnese, ma subito nascondendo il dito.

-Se ti colpisco…se ti colpisco, dice! Virginia, sei morta bambina mia,- avvitò un bullone che aveva avvitato tutte le notti da quando una sola volta si era svitato -Morta.- concluse a bassa voce afferrando i comandi.
Virginia si pulì l’orlo del vestito, si allacciò il fiocco in testa che subito si abbassò floscio e tornò alla sua cabina.

-Tutti morti qui,- disse a nessuno in particolare guardando fuori dal finestrino.

Poi partì.
Il treno cigolava ciondolando sui binari, le chiacchiere dei fantasmi gli arrivavano all’orecchio perché si sa l’aria le trasporta.
E un treno in viaggio di aria ne ha sempre tanta.