mercoledì 30 ottobre 2013

[Frammenti da un Luna-Park] Rosso in memoria

Torna a farsi viva una delle raccolte ospitate sul blog. A unirsi è il racconto scritto per il concorso "Una piazza, un racconto", con prompt "ROSSO". E vi assicuro che non compare unicamente nel titolo...


Rosso in memoria


Il giorno in cui mi vennero le prime mestruazioni avevo la febbre a quaranta: ero alta un metro e uno sputo e indossavo una camicia da notte. 
Quella camicia da notte si macchiò orribilmente e l’alone rosso ferro non è più venuto via. Ancora oggi cerco di scacciare il trauma continuando a lavarla, con il risultato di sbiadire ogni altro colore, ma non il mio. 
Sembra una sorta di lode a me stessa: tu resterai con me, sempre. 

La febbre mi passò e le mestruazioni durarono sette giorni, tornai a scuola solo dopo essere sicura che fossero passate. 
Ancora non avevo bene in mente il concetto del ritorno, così quando il mese successivo mi tornai a macchiare di rosso pensai a una congiura. 
Avevo undici anni e per quanto mia madre si impegnasse, la cosa non mi sembrava avere un senso. E me ne vergognai fino alle superiori, anno in cui ogni singola ragazza sembrava aver subito la mia sorte, ma per unperiodo suscitai un’enorme curiosità in chiunque non avesse un camicetta come reliquiario. 
Le ragazze mi rivolgevano parola solo sussurrando, e spesso mi trascinavano lontano dalla folla per paura di essere udite.  
Durante l’intervallo iniziarono ad accompagnarmi in bagno: le loro sopraciglia si contorcevano per ricreare un misto di curiosità e preoccupazione. All’inizio erano come spaventate all’idea che non potessi più andare in bagno da sola, ma più i mesi passavano e più si chiedevano cosa sarebbe successo loro. Io ero come un ponte di collegamento tra la realtà e il Mondo Rosso. 
Nel Mondo Rosso, a quanto pareva, bisogna arrivarci tutte, prima o poi, e non era sempre una passeggiata. 
Era chiaro che quel rito di passaggio era ardentemente bramato e odiato; una volta beccai una ragazzina di un anno più grande sbirciare nel pattume del bagno.  
Sentii il mio naso arricciarsi sotto la spinta del labbro superiore: la mia smorfia di disgusto deve averla spaventata a morte, perché se ne uscì piagnucolando scuse e chissà quale altra preghiera. 
La mia notorietà come unico esemplare del Mondo Rosso non durò a lungo, tutto svanì non appena venne scoperto che molte delle ragazze avanti a noi erano cittadine ufficiali da ormai due anni. 
Io ne fui contenta, ma una parte di me ne era ancora profondamente stupita e spaventata. Una notte sognai di camminare per la casa, che però non era davvero casa mia. Al posto della moquette c’era un bel prato verde e arrivata di fronte allo specchio in sala, notai che mi ero lasciata dietro una lunga traccia di foglie rosse. Le perdevo dal mio corpo e poi quando provai a raccoglierne una mi sembrò impossibile: allungavo la mano, ma questa rimaneva a terra e al tatto risultava come un capello enorme, ma dall’aspetto sottilissimo. 
Era la stessa sensazione di quando avevo la febbre, una sensazione che mi dava l’idea di afferrare delle formiche, ma che queste formiche avessero intorno a loro un corpo trasparente più grande. 
Mi svegliai che un forte mal di testa e con le mestruazioni, quel giorno si andava in gita. 
Si trattava di una mostra sulla fotografia: la trovai molto interessante, anche se a tratti barbosa. Apprezzai i soggetti naturali, mentre evitai di guardare insetti e altri animali repellenti. 
A sentire la professoressa di italiano, la mostra era organizzata piuttosto male: la sezione riguardante l’invenzione della fotografia era al centro del labirinto, quando in realtà sarebbe dovuta stare all’ingresso. 
Così, quando arrivammo di fronte alla stanza nominata “Camera oscura” l’insegnante si voltò con uno sguardo illuminato dall’entusiasmo. 
Qui c’è l’inizio, l’inizio di tutto. 
Era stata molto solenne come presentazione, pensai, e quando la guida aprii la porta ci chiese di entrare in fila indiana e di non toccare niente. Quello era un luogo sacro. Non lo disse propriamente così, ma fu quello che intesi: all’interno di quelle mura si stava compiendo un lavoro, un lavoro sul quale si basava tutto il presente. 
In quel momento entrammo nel Mondo Rosso della fotografia, e io svenni nel vedere il curatore sollevare un foglio bianco da una bacinella. 
Per il resto della giornata rimasi con la professoressa di italiano, mentre i miei compagni continuarono a girare per le varie sale. Non dovetti piacerle più molto, ma quando ne parlai con mia madre, lei mi chiese perché avessi avuto quella sensazione: io le dissi che, da quando riaprii gli occhi fino alla fine della giornata, notai nella sua sclera una sfumatura di luce rossa. Mia madre rise, ma si trattenne dal ridere e cercò di tranquillizzarmi. 
Il giorno dopo un mio compagno si presentò con una lampadina rossa e me la sventolò davanti al naso, ululando come un fantasma: quello fu il momento esatto in cui sentii di provare attrazione per qualcuno.  
Era più che il voler giocare a nascondino, era un desiderio. Era come quella macchia sulla camicia da notte, una parte di me, come quelle foglie nel sogno che non riuscivo a tirare su, ma che sentivo perfettamente sulla pelle. 
Quel ragazzino rimase nella mia testa per i successivi quattro anni, e la cosa veramente straordinaria è che non ricordo come ho smesso di ricordarlo e iniziato ad averlo impresso in memoria. 





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