PAPAVERI
Neanche si trattasse di
papaveri!
Era così facile per lui
parlare di morti.
Ma incredibilmente in
vergogna nel pulirsi le mani dai sughi per la selvaggina: si puliva le mani da
quell’unto nei tovaglioli di carta, stropicciandoli e strappandoli.
Li rendeva impresentabili,
quasi avessero fatto a botte.
Per quanto li
rigirasse, avevano comunque da mostrare l’aria sbattuta.
Aveva sempre ritenuto
che ogni cosa avesse un verso.
Un verso in cui andava
piegata, un verso in cui appoggiarla, un verso perfino per essere mangiata.
Per lui erano leggi
naturali insite nell’uomo, tanto quanto lo era parlare di morte.
Era così semplice per
lui, troppo.
Mi traumatizzava quasi
vederlo così deciso e lento, provavo una morsa al petto desiderando
ardentemente che andasse avanti senza pause.
Ma le pause erano parte
di lui, di quei discorsi.
Che ti si imprimevano
dentro come un marchio.
Provavo nausea nello
stare troppo lungo ferma su quell’argomento, tanto da desiderare di alzarmi e
muovermi.
Sentirmi viva mi avrebbe
forse dato la forza per aprire bocca e dire qualche parola, ma la mia paura era
che, stando ferma, in realtà avrei vomitato.
Non ero così forte, non
lo sono nemmeno ora.
E nemmeno lui lo era,
solo che… Aveva delle leggi, nella testa, che lo rassicuravano.
Mentre io non le ho mai
avute.
Quando passeggiavamo per
strada era invece molto nervoso il suo passo, eravamo – seppur magari di poco –
sempre disposti in un assetto diagonale, dove lui teneva il volto un po’
spostato verso un lato.
Non teneva le spalle
dritte in assetto con il bacino, era più uno sbilanciamento in avanti: come
dovesse arpionare qualche cosa.
In quei momenti, avevo
sempre la sensazione che sarebbe partito.
Non partiva mai, questa
è la verità. Mai.
E in me si era creata
quell’angoscia interminabile, dove anche il rilassarmi era una congiura.
Immobile anche a bere un
tè, mi sentivo scalpitare le interiora, come se non entrasse abbastanza aria.
Nulla ormai
riusciva a calmarmi.
Occupavo le mie giornate
facendo cose semplici e ripetitive.
Mi alzavo e facevo
colazione su quel tavolo, anche se prima si reggeva bene su quelle gambe.
Ci si sta effettivamente
in due, stretti, ma andava bene così: almeno non mi sarei sentita sola, nemmeno
se lo fossi stata per davvero.
Vi bevevo, appoggiata
coi gomiti, una tazza di caffé, guardando fissa il vuoto ai piedi della porta;
fino a che i suoi piedi non comparivano rimanevo dispersa senza essere sicura
di star bevendo per davvero.
In genere non sorrideva,
entrava bloccandosi in quel punto mentre si annodava la cravatta, sempre
diversa, per poi passare a darmi un bacio frettoloso – a volte non centrava
proprio bene le mie labbra – e con una mano sola – trattenendo il nodo alzato –
prendeva la moka e si versava la sua tazza.
La beveva in piedi, sul
tinello. Raramente si concedeva la tregua di star seduto in mia compagnia.
Per lui era una forma di
costrizione credo, anche se non ho mai avuto l’esigenza di domandarglielo.
Mi andava bene così: lui
rendeva a brandelli i tovaglioli, lui beveva il caffé sul tinello, lui parlava
di morti come fossero papaveri.
Di quest’ultima parte
avevo davvero una scarsa stima.
Generalmente non mi
soffermavo troppo in quei dialoghi con la mente, mi isolavo giocherellando con
una delle tante collane che portavo al collo.
Sempre grandi e spesse
da poterle sentire tra le dita.
Concentrata a questo
modo mi ponevo le risposte a grandi quesiti che non avevo mai avuto la gioia o
la pazienza di chiedermi: avrei sistemato le petunie sul davanzale nel retro,
il tappeto lo avrei scosso nelle prime ore pomeridiane per non intossicare
nessuno, avrei scritto qualche cosa a macchina verso le dieci di mattina per
imbibirmi del sole malato che si affacciava sulla nostra casa, mentre avrei
rassettato il rassettabile nelle pause.
Qualunque cosa per me
sfociava in una pausa, i miei ritmi erano cauti e monotoni, passando da una
stanza all’altra nello svolgere i miei compiti guardavo a destra e a manca per
cercare il da farsi: trovatolo lo avrei svolto, poi la pausa.
E la pausa consentiva
delle distrazioni: potevo ritrovarmi a sistemare una libreria dopo aver scosso
il tappeto, nel sistemare i libri avrei potuto intrappolarmi aprendone uno,
trovando così il da farsi successivo.
Solo quando quell’azione
avesse iniziato a puzzare, l’avrei interrotta in cerca di un’altra pausa.
Per certi versi la mia
vita era uno scandalo: la riempivo di misere scappatoie nell’attenderlo a casa.
E lì, con la cena
pronta, chiacchieravamo davanti al camino con l’unica luce concessaci dal
fuoco.
Mi accomodavo sul nostro
divano ancora vestita degli abiti del giorno, piegando le gambe senza scarpe.
Ricordo bene il tenere la testa inclinata e appoggiata al braccio destro, mi
consentiva di ascoltare le sue parole e intrappolarle nella mia testa nel caso
fossero state buone. In caso contrario avrei lasciato che la mano si spostasse
dall’orecchio destro facendo uscire come aria ogni suono.
Più di tutto risento nel
tempo di quella posizione d’ascolto: le ginocchia mi dolgono solo a pensare a
quanto le abbia trattenute così issate, ma mai mi sarei mossa.
Si sarebbe forse accorto
che ero viva.
Eh… Ridicolo
sì, ma ero giovane e sposata con un uomo di parole, non potevo farne a meno.
I giorni in cui lo
vedevo tornare a casa troppo stanco mi era concesso di aiutarlo a svestirsi.
Iniziava lui levandosi
la giacca, o il cappotto, per poi sfilargli le braghe partendo dalle bretelle,
la camicia era affare suo, mentre io gli slacciavo le scarpe. E qui sì, qui
ciondolava un po’ le gambe per far cadere i pantaloni a terra.
Non che li spostassimo
fino al giorno dopo, ma qualcosa mi diceva che era giusto vederli lì,
abbandonati dopo una giornata di lunga fatica e durata.
Rattrappiti li guardava
catatonico, mentre si sdraiava con il solo intimo sotto le coperte. Per più di
qualche minuto li continuava a guardare, non so se indeciso dal tirarli su o se
si aspettasse che si alzassero da soli: nulla di tutto ciò effettivamente
accadeva.
Non mi rimaneva così che
coricarmi accanto a lui, facendo finta di aver avuto la stessa pesante
giornata.
E in silenzio come il
resto del giorno, mi toccava affrontare le ultime ore di veglia, fino a
sprofondare nel sonno riparatore della mia noia.
Nessun commento:
Posta un commento
Sarei felice se lasciassi il segno ;)