lunedì 6 gennaio 2014

[Frammenti da un Luna-Park] Papaveri

Riesumato un racconto che era finito tra le pagine di qualcosa che sto risistemando e che spero vedrò la luce entro l'estate.


PAPAVERI


Neanche si trattasse di papaveri!
Era così facile per lui parlare di morti.
Ma incredibilmente in vergogna nel pulirsi le mani dai sughi per la selvaggina: si puliva le mani da quell’unto nei tovaglioli di carta, stropicciandoli e strappandoli.
Li rendeva impresentabili, quasi avessero fatto a botte.
Per quanto li rigirasse, avevano comunque da mostrare l’aria sbattuta.
Aveva sempre ritenuto che ogni cosa avesse un verso.
Un verso in cui andava piegata, un verso in cui appoggiarla, un verso perfino per essere mangiata.
Per lui erano leggi naturali insite nell’uomo, tanto quanto lo era parlare di morte.
Era così semplice per lui, troppo.
Mi traumatizzava quasi vederlo così deciso e lento, provavo una morsa al petto desiderando ardentemente che andasse avanti senza pause.
Ma le pause erano parte di lui, di quei discorsi.
Che ti si imprimevano dentro come un marchio.
Provavo nausea nello stare troppo lungo ferma su quell’argomento, tanto da desiderare di alzarmi e muovermi.
Sentirmi viva mi avrebbe forse dato la forza per aprire bocca e dire qualche parola, ma la mia paura era che, stando ferma, in realtà avrei vomitato.
Non ero così forte, non lo sono nemmeno ora.
E nemmeno lui lo era, solo che… Aveva delle leggi, nella testa, che lo rassicuravano.
Mentre io non le ho mai avute.
Quando passeggiavamo per strada era invece molto nervoso il suo passo, eravamo – seppur magari di poco – sempre disposti in un assetto diagonale, dove lui teneva il volto un po’ spostato verso un lato.
Non teneva le spalle dritte in assetto con il bacino, era più uno sbilanciamento in avanti: come dovesse arpionare qualche cosa.
In quei momenti, avevo sempre la sensazione che sarebbe partito.
Non partiva mai, questa è la verità. Mai.
E in me si era creata quell’angoscia interminabile, dove anche il rilassarmi era una congiura.
Immobile anche a bere un tè, mi sentivo scalpitare le interiora, come se non entrasse abbastanza aria.
Nulla ormai riusciva a calmarmi.

Occupavo le mie giornate facendo cose semplici e ripetitive.
Mi alzavo e facevo colazione su quel tavolo, anche se prima si reggeva bene su quelle gambe.
Ci si sta effettivamente in due, stretti, ma andava bene così: almeno non mi sarei sentita sola, nemmeno se lo fossi stata per davvero.
Vi bevevo, appoggiata coi gomiti, una tazza di caffé, guardando fissa il vuoto ai piedi della porta; fino a che i suoi piedi non comparivano rimanevo dispersa senza essere sicura di star bevendo per davvero.
In genere non sorrideva, entrava bloccandosi in quel punto mentre si annodava la cravatta, sempre diversa, per poi passare a darmi un bacio frettoloso – a volte non centrava proprio bene le mie labbra – e con una mano sola – trattenendo il nodo alzato – prendeva la moka e si versava la sua tazza.
La beveva in piedi, sul tinello. Raramente si concedeva la tregua di star seduto in mia compagnia.
Per lui era una forma di costrizione credo, anche se non ho mai avuto l’esigenza di domandarglielo.
Mi andava bene così: lui rendeva a brandelli i tovaglioli, lui beveva il caffé sul tinello, lui parlava di morti come fossero papaveri.
Di quest’ultima parte avevo davvero una scarsa stima.
Generalmente non mi soffermavo troppo in quei dialoghi con la mente, mi isolavo giocherellando con una delle tante collane che portavo al collo.
Sempre grandi e spesse da poterle sentire tra le dita.
Concentrata a questo modo mi ponevo le risposte a grandi quesiti che non avevo mai avuto la gioia o la pazienza di chiedermi: avrei sistemato le petunie sul davanzale nel retro, il tappeto lo avrei scosso nelle prime ore pomeridiane per non intossicare nessuno, avrei scritto qualche cosa a macchina verso le dieci di mattina per imbibirmi del sole malato che si affacciava sulla nostra casa, mentre avrei rassettato il rassettabile nelle pause.
Qualunque cosa per me sfociava in una pausa, i miei ritmi erano cauti e monotoni, passando da una stanza all’altra nello svolgere i miei compiti guardavo a destra e a manca per cercare il da farsi: trovatolo lo avrei svolto, poi la pausa.
E la pausa consentiva delle distrazioni: potevo ritrovarmi a sistemare una libreria dopo aver scosso il tappeto, nel sistemare i libri avrei potuto intrappolarmi aprendone uno, trovando così il da farsi successivo.
Solo quando quell’azione avesse iniziato a puzzare, l’avrei interrotta in cerca di un’altra pausa.
Per certi versi la mia vita era uno scandalo: la riempivo di misere scappatoie nell’attenderlo a casa.
E lì, con la cena pronta, chiacchieravamo davanti al camino con l’unica luce concessaci dal fuoco.
Mi accomodavo sul nostro divano ancora vestita degli abiti del giorno, piegando le gambe senza scarpe. Ricordo bene il tenere la testa inclinata e appoggiata al braccio destro, mi consentiva di ascoltare le sue parole e intrappolarle nella mia testa nel caso fossero state buone. In caso contrario avrei lasciato che la mano si spostasse dall’orecchio destro facendo uscire come aria ogni suono.
Più di tutto risento nel tempo di quella posizione d’ascolto: le ginocchia mi dolgono solo a pensare a quanto le abbia trattenute così issate, ma mai mi sarei mossa.
Si sarebbe forse accorto che ero viva.
Eh… Ridicolo sì, ma ero giovane e sposata con un uomo di parole, non potevo farne a meno.
I giorni in cui lo vedevo tornare a casa troppo stanco mi era concesso di aiutarlo a svestirsi.
Iniziava lui levandosi la giacca, o il cappotto, per poi sfilargli le braghe partendo dalle bretelle, la camicia era affare suo, mentre io gli slacciavo le scarpe. E qui sì, qui ciondolava un po’ le gambe per far cadere i pantaloni a terra.
Non che li spostassimo fino al giorno dopo, ma qualcosa mi diceva che era giusto vederli lì, abbandonati dopo una giornata di lunga fatica e durata.
Rattrappiti li guardava catatonico, mentre si sdraiava con il solo intimo sotto le coperte. Per più di qualche minuto li continuava a guardare, non so se indeciso dal tirarli su o se si aspettasse che si alzassero da soli: nulla di tutto ciò effettivamente accadeva.
Non mi rimaneva così che coricarmi accanto a lui, facendo finta di aver avuto la stessa pesante giornata.
E in silenzio come il resto del giorno, mi toccava affrontare le ultime ore di veglia, fino a sprofondare nel sonno riparatore della mia noia.









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