domenica 1 luglio 2012

[Stralci da una cruna d'ago] La porta

Siamo giunti anche a questo fine settimana, e io non sto aggiornando come all'inizio dell'avventura. Chi si sente sollevato da tutto questo non si preoccupi: gli esami stressano me e salvano voi, perché lo so che se pubblicassi ogni giorno voi non uscireste più di casa per potermi seguire! Ma pubblicando un po' a casaccio, vi lascio la possibilità di farvi una vita *Prisca se la racconta*.
Riassumendo: è domenica, domani esame, oggi raccontino. Sempre la stessa raccolta, perché ben più lunga dell'altra, quindi sto smaltendo i vari testi fino a che non ne rimarranno due come in "Frammenti da un Luna-Park". 
Poi... Eh, poi nuovo progetto *mumble mumble, quale?*
Comunque. Questo racconto è nato in seguito alla lettura di alcune novelle pirandelliane. Il mio istinto camaleontico ha probabilmente tentato di imitarne alcuni tratti, ma non certo nel tema: la raccolta è pur sempre ispirata al surreale.
Voi che ne pensate? Ci rivedete qualcosa di Pirandello? Anche solo una versione altamente patinata?


LA PORTA.


La porta d’ingresso era molto più piccola di qualunque altra cosa avrei in seguito trovato all’interno.
Per raggiungerla c’erano tre gradini, che riportavano le tipiche fosse della vecchiaia e qualche macchia di vissuto. I miei piedi li percorsero incastrandosi alla perfezione, come se anche loro avessero contribuito negli anni.
Suonai al campanello sentendomi le spalle scoperte: era una casa recintata, ma senza cancello, e la buca delle lettere era incassata nella porta. Era una casa che sin da subito si rendeva espansiva: fosse stata una persona l’avremmo definita “da abbraccio”.

La porta si aprì dopo che al citofono era arrivato un “chi è” in brusio; lo scocco tipico di una porta d’ufficio aperto a distanza mi fece avere un ripensamento sull’espansività: nessuno che si fosse preso la cortesia di venirmi ad aprire.
Entrai veramente poco sicuro di dove mi sarei dovuto dirigere, ma accuratamente mi pulii i piedi sul tappetino all’ingresso. Non ce n’era realmente bisogno, infatti lo feci per farmi sentire: credendo che non bastasse, chiesi anche il permesso.
Era buio e due grandi luci erano appese al muro vicine allo stipite della porta; illuminavano in effetti solo un primo gradino che fu più alto di quel che mi aspettavo.
Preoccupato di prendere una storta mi aggrappai al corrimano, sentendolo ruvido e poco rassicurante.
Di sfuggita avevo poi notato che la scala si diramava anche verso l’alto in due rampe; una a destra e una sinistra di quella misera piccola porta all’ingresso: senza troppa curiosità mi zittii pensando che il piano superiore fosse dedicato alla zona notte.
Scesi la rampa principale contando i gradini uno a uno e ritrovandomi ad appoggiare, al loro termine, i piedi su un tappeto sgualcito.
Decisi d’istinto di fermarmi in quel punto.
Non vedevo molto, seppur ci fossero altri due alti lampioni incastrati agli estremi dell’ultimo gradino: un gradino molto lungo e largo che era risuonato vuoto al mio passaggio.
Con fare abitudinario alzai il polso sinistro, ruotandolo fino ad avere lancette e numeri dalla parte del palmo: ovviamente mi spazientii di non poterle vedere.
Poi uno spostare di mobili mi fece ricomporre e tante luci flebili si accesero per la stanza.
Oltre ad essermi sbagliato riguardo alle stanze da letto, potei notare quando grande fosse quel piano.
Decorato con un gusto alquanto tetro, era in realtà provvisto di moltissime finestre tutte rigorosamente chiuse.
Sulle pareti ai miei lati, erano stati incassati un camino per parte ed un fuoco poco vivace scoppiettava verso lo spegnimento.
Un enorme letto invece si mostrava proprio dinnanzi a me: era in ferro battuto e il materasso spesso lo rendeva ancor più alto.
Una flebile tosse sbucava da sotto quelle coperte, mentre un piede continuava a muovere una sedia a dondolo.
Mi tolsi il cappello con la sinistra, perché la destra occupata a tenere la valigetta e senza fare troppo rumore mi avvicinai.
Era migliorata notevolmente dalla mia ultima visita.
Il ventre era stato ricucito senza troppi disagi ed un enorme bottone verde ora provava a ricoprire quello squarcio.
L’occhio sinistro era un peccato che penzolasse ancora, di tanto in tanto ero sicuro uscisse altro cotone, ma ricacciarglielo dentro era fuori discussione: prima c’era da assicurarsi che quello destro avrebbe retto.
Le scostai le coperte, veramente poco perché era così piccola, e poi controllai gli arti: vedendoli sani lasciai sospirare ogni mia fibra, peccato che ci fosse ancora quell’occhio.
Penzolava toccando il cuscino sottostante, che nel frattempo mi sembrava di sentire tremare da quanto anche lui fosse spaventato di potersi ridurre così; le tastai il naso per sentirne la consistenza e fui felice per davvero di sentirlo nodoso e ben cucito.
Ma quell’occhio.
Quell’occhio a pallina era attaccato ad una sottilissima molla ormai poco arricciata, che a muoverla faceva una vibrazione veramente poco rassicurante ed io come medico, ma specialmente come uomo finii per sentirmi davvero in colpa.
Aprii la mia valigetta mettendo da parte ago e filo.
La sedia a dondolo si fermò e potei vedere il bambino di Sasi fare capolino spaventato.
Dispiaciuto presi le forbici che in quel buio riuscirono a fare uno scintillio inquietante, e poi tagliai.
L’occhio scivolò sul lenzuolo bianco trascinando con sé un leggero fiotto di bianco cotone morbido.
Il bambino si coprì i suoi terrorizzato.
Con la fronte corrucciata e i denti stretti procedetti nel cucire.
Le orecchie di Sasi scivolarono tristi verso le sue piccole spalle, la testa si infossò verso quella sinistra e quando il mio respiro si vece vicino potei vedere la mia immagine riflessa nell’occhio restante: lucido e tondo serrai la mandibola e strappai il filo.
Ora una piccola "x" beige completava quella piccola testolina, il bambino di Sasi si alzò dalla sedia facendola muovere come in preda a uno spasmo. Felice le tenne la zampetta morbida tra le dita e mi ringraziò con un sorriso.
Raggruppai le mie cose e voltandomi notai che ai lati della scala che un’ora prima avevo sceso, c’erano due piccole porte. Lo notai solo perché due balie dell’età di sei, sette, anni uscirono colme di una gioia ancora in stallo.
Una di loro mi si avvicinò e mi offrì da bere, rifiutai e presi dall’altra il pagamento generoso di Sasi.
Fiero di me, uscii da quella casa che ora lascia entrare ogni singolo raggio di sole.



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