Il mio capitolo non è stato scelto come inizio per il racconto a catena, un concorso indetto dalla Giunti sul sito Y GIUNTI SHIFT, di conseguenza eccolo qui... e chissà che non ci salti fuori qualcosa di buono in seguito.
Dovrò sistemarlo, senza dubbio, magari trasformandolo in una one-shot, perché così com'è è solo un primo capitolo.
Intanto buona lettura!
AL PRIMO RUMORE
Quando la lavatrice si ruppe, mamma dovette lavare i
panni a mano. Le si scottavano le mani ogni volta che qualcuno andava in bagno
proprio in quel momento, e le diventavano tutte rosse. Rimanemmo senza
lavatrice per un paio di settimane, e ogni volta che sentivo mia madre aprire
il rubinetto in cucina, mi mettevo seduta al tavolo a disegnare. Prendevo i
carioca e disegnavo i suoi contorni. All’inizio le gonne le cadevano rigide
sulle gambe rettangolari, le tre dimensioni erano un mistero per me, ma mia madre
li apprezzava ugualmente e li collezionava come se si trattasse di un Monet non
ancora in voga.
Dovresti cambiare soggetto, ogni tanto. Mi riprendeva mio padre, come fosse geloso di quel
mio attaccamento a mia madre e ai panni sporchi. Ma a me non interessava molto
altro, forse solo gli uccellini appollaiati sui fili dei panni ormai puliti.
Gli stessi uccellini che Alex si divertiva un mondo a
colpire con le sue fionde e le cerbottane improvvisate.
- Perché fai così, stavano cantando!
Alex lanciò un'altra pallina di pongo, imitando con la
bocca uno sparo floscio: gli mancavano i due incisivi e la cosa lo disturbava
parecchio. Il topino dei denti non era ancora passato.
- Guarda che è la fatina. - ribattevo, convinta della
grazia con cui gli esserini passavano nel mondo umano a far visita a noi
bambini.
- No, ti sbagli. È un topo, perché in cambio di un fuo
dente fi mangia il tuo.
- Che schifo!
Era suo padre a raccontargli tutte queste storie, sui
topi che ti mangiano i denti per rendere i tuoi più forti. Una volta era stato
uno studente di storia, che con il tempo si era dovuto adattare al lavoro di
meccanico, alle dita sporche di grasso e alla pancia oltre la cintura; dalle
foto non l’avresti mai detto che un ragazzo così magro avrebbe potuto mangiare
così tanto.
- Piantala, ti ho detto! - mi gettai su Alex, cercando
di afferrare la sua fionda.
- Sei una femmina, non puoi nemmeno toccare questa
fionda. - nel pronunciare l’ultima parola sputacchiò e qualche goccia di saliva
mi colpì le braccia, mi asciugai con un velo di disgusto cercando però di non
farglielo notare.
- Sei come Duffy Duck!
- Allora tu sei come Bugs Bunny, con quei dentoni!-
subito iniziò a prendermi in giro, facendo finta di mangiare una carota.
- Non è vero! Non ho i dentoni…
- Sì, che li hai. E quando ti cadranno nessun topo
vorrà mangiarli.
- Ti ho detto che non è un topo, ma una fatina!
Continuammo a discutere per tutto il pomeriggio, e
Alex mi strappò pure uno dei miei disegni in un tira e molla fin troppo veloce.
Quando facemmo pace volle riportarmi la parte mancante
del disegno, ma gliela lasciai, come simbolo della nostra amicizia. Lui alzò le
spalle e si rimise in tasca metà di un uccellino e un cielo senza nuvole.
- Come mai disegni sempre le stesse cose?
Questa volto fui io ad alzare le spalle, - Quelle cose
mi piacciono. Sono tutte cose che producono rumori.
- Allora dovresti venire in officina da mio padre, lì
di rumore ce n’è tantissimo e potresti disegnare quello che più vuoi!
- Sarebbe bellissimo, ma devo chiedere a mamma se posso.
- Certo che puoi, è un posto con adulti, è come andare
a scuola.
Accettai e lo seguii verso l’officina. Si trovava al
centro del paese, uno di quelli piccoli con le case tutte uguali e spesso
dipinte con i soliti tre colori sbiaditi: azzurro, giallo e rosa; tranne
l’ospedale che era di un verde menta così chiaro da sembrare malaticcio.
Il signor Jenkins aveva la sua officina in mezzo a due
palazzine identiche e alte quattro piani. Era come vedere la finestra tra i
denti di Alex: uno spazio nero e profondo contenuto tra due canini bianchi e
sani.
La gola, come l’avremmo successivamente
soprannominata, era il posto perfetto per ascoltare rumori: le macchine
venivano caricare sopra una sorta di ponte che poi si alzava a due metri da
terra e da lì si poteva vedere tutto, o quasi. Era come se qualcuno avesse
scoperchiato lo stomaco a una tartaruga, e io questo l’avevo visto fare ad
Alex, per fortuna con una tartaruga già morta e rinsecchita.
Inutile dire che la cosa non mi era piaciuta per
niente.
- Un giorno anche io lavorerò qui. - lo disse con un
tono orgoglioso, un tono che non gli sentì usare mai più.
- E io potrò dipingerti!
Girammo tra i cerchioni e andammo a sederci sopra un
paio di gomme abbandonate in un angolo. Fu lì che ci trovò il signor Jenkins,
al qualche Alex rivolse un allegro “ciao, papà!”.
Si infuriò a tal punto da tingersi il volto dello
stesso rosso della mani di mia madre, fino a superarlo e gli si evidenziò sulla
fronte una spessa vena blu.
Presi veramente paura e quando i miei mi vennero a
prendere si risparmiarono dallo sgridarmi, vedendomi già in lacrime e in uno
stato di colpevole silenzio.
Alex rimase in punizione per qualche giorno, quando lo
chiamavo per chiedergli come stava mi rispondeva sempre sua madre: una donna
che era rimasta minuta, piena di capelli e allegra, nonostante la presenza
contraddittoria del marito. Mi assicurava che Alex stava bene, ma che non
sarebbe uscito per qualche altro giorno.
Speravo che questa punizione non si concludesse con
l’inizio della scuola, perché altrimenti avrei dovuto passare i miei ultimi
giorni di libertà da sola: nessuna delle mie amiche era tornata dalle vacanze e
se lo erano certo non avrei potuto chiedere loro di giocare nei campi.
Joy, mi
dicevano, mamma mi ha messo un vestito nuovo. E io mi domandavo dove erano finiti i loro vestiti
vecchi, ma mai una volta che l’abbia espresso ad alta voce.
Quella sera mamma si mise a lavare i piatti, come
d’abitudine mi appostai in cucina, seduta dal lato del tavolo adatto a
riprendere la scena. La vidi infilarsi il grembiule e legarsi i capelli. Appena
afferrò la spugna per mettervi sopra qualche goccia di sapone liquidi, io
lasciai andare la matita e appoggiai la testa sul figlio. L’orecchio pigiato
contro tutto quel bianco che si rifiutava di parlare.
- Tutto bene, tesoro? - mamma si era distratta non
sentendo le matite graffiare la carta, i pastelli producevano un rumore tutto
loro contro il legno del tavolo.
- Mi annoio, mamma.
- Vuoi lavare i piatti con me?
Per un attimo l’idea mi parve buona e alzai la testa,
ma subito ci ripensai e scossi il capo.
- Ti manca Alex?
Annuì, appoggiando i gomiti sul tavolo e chiudendo il
mento tra le mani.
- Mi dispiace tesoro, ma è la giusta punizione per
essere entrati in un luogo pericoloso.
- Perché il suo papà lavora in luogo pericolo?
- Non è pericoloso per lui, anche se deve stare
attento. Lo è per voi, siete ancora troppo piccoli per quei posti.
Ci rimettemmo in silenzio, a riempire quel momento
c’erano i dialoghi alla tv in lontananza, forse quelli di un telegiornale.
- Alex ha detto che un giorno lavorerà in
quell’officina.
- Sarà contento suo padre. - mi rispose, sistemandosi
una ciocca di capelli ribelle.
- Anche io farò il lavoro di papà?
- Dipende da te, a te piacerebbe vendere case?
- A me piacerebbe disegnarle.
Mamma sorrise, - Chissà, magari un giorno ci sarà un
piccolo paese come questo pieno di case fatte da te.
Ricordo che corrucciai la fronte, immaginandomi un
paese composto interamente da case e palazzi di carta. Quella notte sognai che
le mie case prendevano fuoco e che Alex, dispettoso, continuava a colpire i
miei uccellini silenziosi.
Non ricordo l’anno preciso, ma tra l’estate in cui mi
tagliai i capelli a caschetto e quella in cui mi dovettero operare di
appendicite, iniziai ad andare a lezione di piano, anche se all’inizio ero
stata attratta dal violino.
La sorella di Monica, di due anni più grande, lo
suonava e io ero rimasta piacevolmente attratta da quello strumento, nonostante
mi domandassi cos’è che gli impediva di essere suonato come una chitarra. Una
volta passai il pomeriggio da loro, Laura non c’era e io espressi qualche moina
di troppo verso quel violino, tanto da farmi proporre da Monica di entrare
silenziosamente in camera della sorella per provare a tenerlo sotto il mento.
Quella notte sognai di riavere le corde sottili e rigide tra le dita e di
romperne un paio dopo essermi tagliata un polpastrello.
Pur non essendo accaduto nulla, era chiaro che la via
dell’agente segreto non faceva per me, troppe responsabilità emotive.
Così mi dedicai al piano: una serie di tasti bianchi e
neri facili da pigiare, uno strumento che non avrei dovuto reggere e nemmeno
portarmi appresso.
Papà ne prese uno piccolo da mettere in corridoio,
proprio a fianco della porta della cucina. Sopra vi appoggiarono i vasi lunghi
e magri che un tempo erano appartenuti al comodino che avevano bruscamente
spostato in un angolo meno importante.
Ancora adesso sono ancora visibili le impronte dello
scotch di carta che riportava le note sui tasti: un escamotage che ho ben
presto dovuto abbandonare per concentrarmi nella lettura dei brani.
Mi divertivo, quindi, ad accompagnare i lavori
domestici di mia madre con le poche canzoni che ero in grado di suonare
liberamente, facendo affidamento sulla memoria, ignorando la maggior parte di
quelle sui cui invece avrei dovuto esercitarmi.
Il primo contatto che Alex ebbe con il piano, fu un
sol piuttosto intenso. Continuava a premere il tasto e a guardare sotto per
assicurarsi che non spuntasse nulla di strano.
- Anche a me piacerebbe suonare, ma non il piano…
- E cosa allora?
- La tromba! Pè pè pè!- iniziò a intonare, strizzando
gli occhi e gonfiando le guance. - - Dai, suona anche tu! - mi disse, e io mi
misi al piano a suonare quello che conoscevo. Lui che seguiva un po’ i miei alti
e i miei bassi e mia madre che ci pregava di abbassare, come se si trattasse di
una radio.
Papà mi alzò di forza dal piano e prese in spalla
anche Alex, esprimendo con tono divertito la speranza che nessuno dei due si
desse alla musica.
Continuai a suonare negli anni successivi, migliorando
anche la mia presenza: gli insegnanti che si sostituirono per tutto il liceo
continuarono a dirmi di limare la mia parte grezza. A me sembrò un chiaro
riferimento ad Alex, che invece si era dato a strumenti più rumorosi e anche
più allegri, a dirla tutta.
Non so se fosse colpa della musica classica, ma nella
mia testa continuavo a pensare che i disegni erano solo miei, mentre quelle
note ero costretta a condividerle sempre con un autore morto famoso.
Il giorno in cui a scuola ci dissero che era venuto il
momento di pensare a cosa avremmo voluto fare da grandi io non seppi cosa
rispondere. Alex non aveva molta scelta, quindi non provò nemmeno a riflettere
sulla domanda.
Ricordatevi,
diceva l’insegnante di matematica, che non tutte le passioni devono
diventare un lavoro. E il mio mondo
fatto solo di passioni mi parve improvvisamente stretto, e in un angolo
inespresso del mio cervello iniziai a invidiare la via già tracciata della
famiglia Jenkins, tra motori e chiavi inglesi.
Alla giornata di orientamento ci fecero compilare un
test, i risultati prevedevano un blu oltremare, un rosso carminio, un verde
pino e un giallo smunto e triste che speravo di non essere.
Risultai come una rosso carminio misto a quel giallo
canarino e quando andai a chiedere spiegazioni il professore di storia mi
propose lo stesso discorso sentito dalla signora Brown in un’accezione a mala
pena rinfrescata: - Devi riuscire a discernere l’hobby dal lavoro, Joyce. Il
primo ha sicuramente la sua importanza, ma il lavoro devi essere sicura di
portarlo a termine, anche se può non essere sempre il massimo.
Per un attimo pensai che sarei potuta andare a
lavorare in un pub e dedicare il resto del tempo a tutto quello che non era
lavoro, una montagna di cose, ma come ero sicura che non fosse decisamente il
massimo, non lo ero altrettanto sul fatto di poterlo portare a termine.
A questo punto, per quanto ci sia uno scarto temporale
notevole, mi viene alla mente una domanda che però avrò pensato una miriade di
volte.
- Sul serio, questo sarei io?
Alex continuava a indicare una versione su poster di
se stesso: un ragazzino tutto colorato dai contorni puntinati girato a tre
quarti. In bocca una cerbottana, e intorno alla sua testa una serie di scritte
rumorose color rosso papavero.
- Sto facendo bang, e crash!
- Sei come ti ricordo. - risi, riposizionandomi gli
occhiali sul naso.
- Joy, sul serio, capisco perché tu voglia smettere.
- Sei sempre il solito! Questa è pop art, documentati…
- lo canzonai.
- Come vuoi, ma quello non sono io. Sono troppo
pulito!
- Questo è vero, - gli spostai un bordo del blazer per
rivelare una macchia di grasso nero sulla camicia. - Avresti almeno potuto
cambiarti prima di venire.
Alex tornò a coprirsi. - Non ho molte camicie nel mio
armadio, non mi servono né mentre pulisco serbatoi né mentre suono. Sai che col
sax si suda…
Scossi il capo divertita, - Prima di smettere devo
dipingere “Le quattro versioni di Al”: una alla batteria, una in officina, una
al sax e…
- E mentre sono al bagno. Lì sì che di rumore ne
faccio, non puoi lasciartela sfuggire!
- Oh, piantala, mi fai vergognare! - gli diedi un paio
di buffetti sul braccio, la gente che ci passava accanto sembrava non averlo
sentito.
- Nonostante tutto il tempo passato con me, sei
rimasta una vera signorina, Joyce Powell.
Lo abbracciai forte, incurante del pubblico che
sbuffava perché impossibilitato a vedere “Ricordi d’infanzia”. Quando mi baciò
sulla fronte, mi staccai da lui e decisi di chiederglielo, nonostante fosse un
tabù per le sue orecchie.
- Come sta tuo padre?
Si girò verso la parete, gli occhi non puntavano verso
nessuna opera in particolare, si infilò le mani in tasca proprio come in quei
momenti di maggior disagio che gli avevo visto affrontare per tutto il periodo
scolastico: un brutto voto, una storia andata male, un litigio con un amico…
Quando le sue mani sparivano anche il suo viso si rabbuiava.
- Non si sposta più in là del salotto. Ha un sacco di
tubi che gli passano lungo le braccia e un paio per l’ossigeno gli stanno nel
naso. Abbiamo dovuto prendere un’infermiera, perché mia madre non ce la fa ad
aiutarlo da sola. È gelosa, però, perché vede le palle flosce di mio padre.
- Ha detto pelle, signora, non si scandalizzi…- dissi nel vedere la faccia raggrinzita
e accartocciata di una donna in tailleur grigio perla.
- È un posto veramente pudico, questo, eh.
Sospirai. - Vuoi sentire la mia nuova opera?
- Ho capito bene, hai detto sentire?
Annuì, mordendomi il labbro per trattenere
l’entusiasmo. Lo presi per mano e lo portai fuori dalla mostra, al freddo
rigido di gennaio.
- Mio, dio, ma che cavolo, Joy, vuoi uccidermi? -
infreddolito alzò il piccolo bavero del blazer per coprirsi la gola.
- Per un po’ d’arietta!
- Arietta? Sento il sangue fermarsi in grumi grossi
come sassi.
Roteai gli occhi, la sua teatralità mi era mancata in
quegli anni di formazione accademica. Ero solita tornare a casa solo d’estate e
anche in quei tre mesi eravamo troppo impegnati per goderci la rispettiva
compagnia: dopo il liceo le cose si erano come addormentate. Le case, i luoghi,
gli alberi erano rimasti gli stessi, una sorta di nostra presenza aleggiava
ancora lì da qualche parte, mentre i nostri corpi crescevano altrove o da soli.
Un’estate ero andata a sentirlo suonare a una sagra e da lì avevo trovato la
tesi da discutere: i rumori della mia vita, i rumori che mi avevano
accompagnata fino a quel momento.
Era stato un progetto su larga scala, perché ero
riuscita a convincere il mio professore d’arte a darmi uno spazio per una
mostra, anche piccolo. Questo significava aggregarsi a una mostra già avviata,
perché nessuno se la sentiva di spendere per me o di pagarmi.
Durante quel lungo periodo di progettazione, che mi
aveva portato a lavorare un anno in più del dovuto, avevo realizzato
trentasette stampe. Trentasette diversi soggetti pieni di colori e rumori
fittizi. Ero arrivata in fondo sicura che questo non mi bastasse più, ma almeno
lo avevo portato a termine, anche se non era sempre stato il massimo.
- Alex, - gli dissi, finalmente al caldo nel piccolo
studiolo che mi avevano affittato per le ultime preparazioni. - Ho deciso che
voglio fare rumore. Siediti per favore.
- Devo preoccuparmi?
- Siediti, dai.
Andai a prendere un disco in vinile sul quale eravamo
riusciti a imprimere i miei suoni, lo sistemai sulla piattaforma e lo fece
partire.
All’inizio si alternarono delle sottili vibrazioni,
come se ci fosse qualcosa di sbagliato, poi li raggiunsero delle onde leggere e
dei tintinnii. A risentirlo mi pareva impossibile che li avessi prodotti
partendo da registrazioni di suoni quotidiani: sapevo che avevo usato la
lavatrice o un la matita sul legno, o una pentola, ma mai le avrei
riconosciute. Nell’ultimo mese mi era addirittura passato per la testa di
proporlo come colonna sonora per la mostra, ma avevo poi evitato, perché a
sistemare ogni cosa ci aveva pensato un’equipe che aveva lavorato per i
maggiori musei europei, io ero come la tarma saltata fuori da un cappotto
logoro e desiderosa di abiti tutti nuovi. Se li volevo dovevo vivere secondo
certe regole.
- Mi ha aiutato Jamie, un dj che ha fatto l’accademia
musicale un paio di anni fa. Ha remixato tutto. Che ne pensi?
Alex si sfregò la fronte e per me aveva già detto
tutto.
Quando aprì bocca per dire “Ci manca un bel sax… E
magari qualche strumento normale”, io ero già andata oltre. Avevo già
imbronciato le labbra, meditato sul da farsi e accettato l’idea che
quell’incisione non fosse poi un granché.
Le sue mani mi avevano sempre rivelato tutto in
anticipo, mi sentivo un po’ indovina per questo e ammetto anche di averlo
immaginato più volte come mimo: in un silenzio obbligato e coinvolgente, con le
sue mani avrebbe potuto narrare qualsiasi storia.
- E mentre tu riprenderai in mano il pianoforte,
provvederemo a farla pagare a quel cretino di un dj che ti ha lasciato comporre
questa assurdità.
- Ah ah, simpatico. Jamie non è cretino, voleva solo
darmi il suo sostegno. - mi appoggiai alla scrivania a braccia conserte, e
rimasi a guardarmi i piedi per qualche istante. Uno di troppo, forse.
- Ti piace un dj! Oh, Joy, no… che clichè!
Mi sentii arrossire, non avrei mai voluto che lo
scoprisse. Mi sentivo sempre in difetto se si parlava delle mie storie, era
come andare contro corrente: in tutti i miei quadri avevo sempre messo la
storia degli altri, in fin dei conti della mia sapevo già tutto, e la gente
l’avrebbe percepito che in quelle opere non c’era nulla di nuovo da svelare.
- Sei caduta nella trappola delle grandi città.
Mi si affiancò, le mani in tasca. Di scatto sbattei le
palpebre e guardai verso l’alto: non volevo essere partecipe di quel disagio,
nemmeno mi diedi il tempo di comprenderlo.
- A quanto pare.
- E com’è?
Alzai le spalle e svincolai le braccia, iniziando a
disegnare piccoli cerchi sulle cosce con gl’indici. - Carino. Parla veloce… A
volte sbaglia le vocali nelle parole.
- Va bene, non andiamo oltre, ho paura di dove
potremmo andare a parare! - si scostò velocemente, le mani in alto e lo sguardo
basso. Guardai questa gestualità sentendomi confusa, come se si trattasse di un
geroglifico: che mi stava dicendo?
Risi, nel vederlo arrossire. - È strano capovolgere i
ruoli.
- Abbastanza.
- Alex, - dissi, per rompere quella strana atmosfera.
- Mamma e papà sono contenti di quel che ho fatto finora. La mostra sembra
andare bene, un paio di quadri forse li vendo pure. E mi hanno proposto
un’altra serata verso giugno…
- È una bella cosa, Joy. E nessuno ti dice di
rinunciarvi.
- Io ho solo paura, Alex. Ho paura che la musica non
mi esca altrettanto bene, ho scelto l’accademia d’arte per questo, era qualcosa
che forse mi veniva più facile.
- Se ti viene così facile sarà facile anche tornarci.
Sentivo un freno alla bocca dello stomaco, ero
spaventata anche solo all’idea di ammettere la verità: se fosse uscita, lì si
sarebbe condensata, fatta viva, e poi sarebbe stato impossibile scrollarsela di
dosso.
- Non se l’aspettano da me.
Alex si sedette sulla scrivania, ciondolò i piedi come
se fosse seduto su un’altalena e si guardò attorno. - Se non lo fai rischi di
deluderti, perché è questo il vero problema. Per tutti gli altri sei
un’artista, ormai. Cambi di questo genere se li aspettano come i cambi d’umore
adolescenziali.
- Un’artista… - scossi la testa e sbuffai.
- Per quanto mi sembri strano, stai per vendere due
quadri e a giugno avrai una seconda mostra. Ma nel frattempo ti toccherà
riempire questi cinque mesi, e se Dio ce la manda buona lo farai con della
musica migliore.
- Cattivo. Non può essere così terribile…
- Sul serio? C’è un gatto che tutte le notti passa
sotto la mia finestra, vuole farsi Mimi e strilla come un pazzo! Dovresti
sentire il suo falsetto… Ma tu lo batti.
- E a dirmelo è il re del jazz, ovviamente.
- Ovviamente.
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