venerdì 1 giugno 2012

[Frammenti da un Luna-Park] Maschera


È il primo giugno e si torna sui binari della scrittura.
Salutiamo maggio e diciamo buongiorno ai nuovi trenta giorni dinanzi a noi con il prossimo racconto della raccolta Frammenti da un Luna-Park.



MASCHERA.

Roma alle otto e tre quarti è un caos, e così a qualunque altro orario.
E se avere una smart ti può dare l’idea di salvezza, in realtà non c’è scampo: ci si sente imbottigliati in quel brulicare fitto.
Era chiaro, nonostante l’ora, che il rumore andava guadagnato: molto semplicemente bisogna cozzare per fare rumore, e lui per esempio era solo.
Si era mosso con il freddo aleggiante a tre centimetri da terra, trascinandosi per i marciapiedi e le vie così larghe di quella città, fino ad arrivare davanti alla stazione.
Se ne stava quindi, in tenuta da mimo, a muoversi inscatolato nel rumore esterno.
Solo.

Il giorno prima aveva piovuto e si sa quanto la pioggia scrosci, ma non scroscia mai da sola: la pioggia cozza, la voce cozza, la farina. Tutto per essere sentito aveva quel processo espansivo del cozzare, che un mimo non conosce.
Non era esplicito il suo chiedere monete, perché teneva il cappello in testa e non aveva mai portato con sé una scatola da scarpe: in cuor suo riteneva che nessun altra scatola potesse tenere monetine lanciate. E poi, in un qualunque modo, anche loro avrebbero fatto rumore, facendolo sentire ancor più sordo.
Solo.
Muoveva le braccia e a volte gli capitava di lanciare corde, si era così mentalmente preparato ai rischi del mestiere: un paio di vittime al giorno le avrebbe dovute fare.
Strangolamento era stata dichiarata la principale causa: così ad ogni corda lanciata con esca annessa, si preparava a dover tirare.
Tirato fino al punto di rottura disponibile, poteva accasciarsi a terra al posto dell’esca, risparmiandole così la tintoria e un probabile ritardo.
In una di queste performance ad alto rischio, aveva quasi fallito l’impresa: rotolato male si era rialzato similmente ad un pesce senza lisca ed un bambino aveva riso.
Rumore e sordità erano le sue voglie segrete.
Sarebbe rimasto sordo fino a quando non lo avrebbero mimato come si conveniva ad un mimo, ma il rumore di una risata stava quasi per rovinarlo: si costrinse ancora ad un silenzio immobile, tornando con la faccia tinta e ben piantata, al suo posto.
Si girò di spalle verso il muro e iniziò a contare, non certo per giocare a mosca cieca perché lui ci vedeva benissimo, ma bensì per notare qualcosa di nuovo nel girarsi.
Quello doveva essere in effetti il suo giorno fortunato, un cappello era stato gettato a terra. Vuoto.
Un pagliaccio si muoveva solo di faccia, coprendosela al suo girarsi.
Giocarono in effetti per più di una mezzora, senza che le monete entrassero in quel cappello, in effetti non potevano: bucato le lasciava cozzare sull’asfalto, che di certo non era loro, quindi potevano dichiararsi intatti dal suono ancora una volta.
Era un pagliaccio senza palloncini, aveva le suole delle scarpe bucate leggermente e la pernacchia l’aveva asportata.
Non c’era scena più cozzante di quella, in effetti: si guardavano gesticolando a modo loro.
In silenzio riuscivano a capirsi, ed erano forse incastrate in quei mascheroni bianchi parole e verbi, ma riuscirono ugualmente ad invitarsi a cena.
Alle otto.
In una pizzeria in centro.

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