È il primo giugno e si torna sui binari della scrittura.
Salutiamo maggio e diciamo buongiorno ai nuovi trenta giorni dinanzi a noi con il prossimo racconto della raccolta Frammenti da un Luna-Park.
MASCHERA.
Roma alle otto e tre quarti è un
caos, e così a qualunque altro orario.
E se avere una smart ti può dare
l’idea di salvezza, in realtà non c’è scampo: ci si sente imbottigliati in quel
brulicare fitto.
Era chiaro, nonostante l’ora, che
il rumore andava guadagnato: molto semplicemente bisogna cozzare per fare
rumore, e lui per esempio era solo.
Si era mosso con il freddo
aleggiante a tre centimetri da terra, trascinandosi per i marciapiedi e le vie
così larghe di quella città, fino ad arrivare davanti alla stazione.
Se ne stava quindi, in tenuta da
mimo, a muoversi inscatolato nel rumore esterno.
Solo.
Il giorno prima aveva piovuto e
si sa quanto la pioggia scrosci, ma non scroscia mai da sola: la pioggia cozza,
la voce cozza, la farina. Tutto per essere sentito aveva quel processo
espansivo del cozzare, che un mimo non conosce.
Non era esplicito il suo chiedere
monete, perché teneva il cappello in testa e non aveva mai portato con sé una
scatola da scarpe: in cuor suo riteneva che nessun altra scatola potesse tenere
monetine lanciate. E poi, in un qualunque modo, anche loro avrebbero fatto
rumore, facendolo sentire ancor più sordo.
Solo.
Muoveva le braccia e a volte gli
capitava di lanciare corde, si era così mentalmente preparato ai rischi del
mestiere: un paio di vittime al giorno le avrebbe dovute fare.
Strangolamento era stata
dichiarata la principale causa: così ad ogni corda lanciata con esca annessa,
si preparava a dover tirare.
Tirato fino al punto di rottura
disponibile, poteva accasciarsi a terra al posto dell’esca, risparmiandole così
la tintoria e un probabile ritardo.
In una di queste performance ad
alto rischio, aveva quasi fallito l’impresa: rotolato male si era rialzato
similmente ad un pesce senza lisca ed un bambino aveva riso.
Rumore e sordità erano le sue
voglie segrete.
Sarebbe rimasto sordo fino a
quando non lo avrebbero mimato come si conveniva ad un mimo, ma il rumore di
una risata stava quasi per rovinarlo: si costrinse ancora ad un silenzio
immobile, tornando con la faccia tinta e ben piantata, al suo posto.
Si girò di spalle verso il muro e
iniziò a contare, non certo per giocare a mosca cieca perché lui ci vedeva
benissimo, ma bensì per notare qualcosa di nuovo nel girarsi.
Quello doveva essere in effetti
il suo giorno fortunato, un cappello era stato gettato a terra. Vuoto.
Un pagliaccio si muoveva solo di
faccia, coprendosela al suo girarsi.
Giocarono in effetti per più di
una mezzora, senza che le monete entrassero in quel cappello, in effetti non
potevano: bucato le lasciava cozzare sull’asfalto, che di certo non era loro,
quindi potevano dichiararsi intatti dal suono ancora una volta.
Era un pagliaccio senza
palloncini, aveva le suole delle scarpe bucate leggermente e la pernacchia
l’aveva asportata.
Non c’era scena più cozzante di
quella, in effetti: si guardavano gesticolando a modo loro.
In silenzio riuscivano a capirsi,
ed erano forse incastrate in quei mascheroni bianchi parole e verbi, ma
riuscirono ugualmente ad invitarsi a cena.
Alle otto.
In una pizzeria in centro.
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