Siamo giunti anche a questo fine settimana, e io non sto aggiornando come all'inizio dell'avventura. Chi si sente sollevato da tutto questo non si preoccupi: gli esami stressano me e salvano voi, perché lo so che se pubblicassi ogni giorno voi non uscireste più di casa per potermi seguire! Ma pubblicando un po' a casaccio, vi lascio la possibilità di farvi una vita *Prisca se la racconta*.
Riassumendo: è domenica, domani esame, oggi raccontino. Sempre la stessa raccolta, perché ben più lunga dell'altra, quindi sto smaltendo i vari testi fino a che non ne rimarranno due come in "Frammenti da un Luna-Park".
Poi... Eh, poi nuovo progetto *mumble mumble, quale?*
Comunque. Questo racconto è nato in seguito alla lettura di alcune novelle pirandelliane. Il mio istinto camaleontico ha probabilmente tentato di imitarne alcuni tratti, ma non certo nel tema: la raccolta è pur sempre ispirata al surreale.
Voi che ne pensate? Ci rivedete qualcosa di Pirandello? Anche solo una versione altamente patinata?
LA PORTA.
La
porta d’ingresso era molto più piccola di qualunque altra cosa avrei in seguito
trovato all’interno.
Per
raggiungerla c’erano tre gradini, che riportavano le tipiche fosse della
vecchiaia e qualche macchia di vissuto. I miei piedi li percorsero
incastrandosi alla perfezione, come se anche loro avessero contribuito negli
anni.
Suonai
al campanello sentendomi le spalle scoperte: era una casa recintata, ma senza
cancello, e la buca delle lettere era incassata nella porta. Era una casa che
sin da subito si rendeva espansiva: fosse stata una persona l’avremmo definita
“da abbraccio”.
La
porta si aprì dopo che al citofono era arrivato un “chi è” in brusio; lo scocco
tipico di una porta d’ufficio aperto a distanza mi fece avere un ripensamento
sull’espansività: nessuno che si fosse preso la cortesia di venirmi ad aprire.
Entrai
veramente poco sicuro di dove mi sarei dovuto dirigere, ma accuratamente mi
pulii i piedi sul tappetino all’ingresso. Non ce n’era realmente bisogno,
infatti lo feci per farmi sentire: credendo che non bastasse, chiesi anche il
permesso.
Era
buio e due grandi luci erano appese al muro vicine allo stipite della porta;
illuminavano in effetti solo un primo gradino che fu più alto di quel che mi
aspettavo.
Preoccupato
di prendere una storta mi aggrappai al corrimano, sentendolo ruvido e poco
rassicurante.
Di
sfuggita avevo poi notato che la scala si diramava anche verso l’alto in due
rampe; una a destra e una sinistra di quella misera piccola porta all’ingresso:
senza troppa curiosità mi zittii pensando che il piano superiore fosse dedicato
alla zona notte.
Scesi
la rampa principale contando i gradini uno a uno e ritrovandomi ad appoggiare,
al loro termine, i piedi su un tappeto sgualcito.
Decisi
d’istinto di fermarmi in quel punto.
Non
vedevo molto, seppur ci fossero altri due alti lampioni incastrati agli estremi
dell’ultimo gradino: un gradino molto lungo e largo che era risuonato vuoto al
mio passaggio.
Con
fare abitudinario alzai il polso sinistro, ruotandolo fino ad avere lancette e
numeri dalla parte del palmo: ovviamente mi spazientii di non poterle vedere.
Poi
uno spostare di mobili mi fece ricomporre e tante luci flebili si accesero per
la stanza.
Oltre
ad essermi sbagliato riguardo alle stanze da letto, potei notare quando grande
fosse quel piano.
Decorato
con un gusto alquanto tetro, era in realtà provvisto di moltissime finestre
tutte rigorosamente chiuse.
Sulle
pareti ai miei lati, erano stati incassati un camino per parte ed un fuoco poco
vivace scoppiettava verso lo spegnimento.
Un
enorme letto invece si mostrava proprio dinnanzi a me: era in ferro battuto e
il materasso spesso lo rendeva ancor più alto.
Una
flebile tosse sbucava da sotto quelle coperte, mentre un piede continuava a
muovere una sedia a dondolo.
Mi
tolsi il cappello con la sinistra, perché la destra occupata a tenere la
valigetta e senza fare troppo rumore mi avvicinai.
Era
migliorata notevolmente dalla mia ultima visita.
Il
ventre era stato ricucito senza troppi disagi ed un enorme bottone verde ora
provava a ricoprire quello squarcio.
L’occhio
sinistro era un peccato che penzolasse ancora, di tanto in tanto ero sicuro
uscisse altro cotone, ma ricacciarglielo dentro era fuori discussione: prima
c’era da assicurarsi che quello destro avrebbe retto.
Le
scostai le coperte, veramente poco perché era così piccola, e poi controllai
gli arti: vedendoli sani lasciai sospirare ogni mia fibra, peccato che ci fosse
ancora quell’occhio.
Penzolava
toccando il cuscino sottostante, che nel frattempo mi sembrava di sentire tremare
da quanto anche lui fosse spaventato di potersi ridurre così; le tastai il naso
per sentirne la consistenza e fui felice per davvero di sentirlo nodoso e ben
cucito.
Ma
quell’occhio.
Quell’occhio
a pallina era attaccato ad una sottilissima molla ormai poco arricciata, che a
muoverla faceva una vibrazione veramente poco rassicurante ed io come medico,
ma specialmente come uomo finii per sentirmi davvero in colpa.
Aprii
la mia valigetta mettendo da parte ago e filo.
La
sedia a dondolo si fermò e potei vedere il bambino di Sasi fare capolino
spaventato.
Dispiaciuto
presi le forbici che in quel buio riuscirono a fare uno scintillio inquietante,
e poi tagliai.
L’occhio
scivolò sul lenzuolo bianco trascinando con sé un leggero fiotto di bianco
cotone morbido.
Il
bambino si coprì i suoi terrorizzato.
Con
la fronte corrucciata e i denti stretti procedetti nel cucire.
Le
orecchie di Sasi scivolarono tristi verso le sue piccole spalle, la testa si
infossò verso quella sinistra e quando il mio respiro si vece vicino potei
vedere la mia immagine riflessa nell’occhio restante: lucido e tondo serrai la
mandibola e strappai il filo.
Ora
una piccola "x" beige completava
quella piccola testolina, il bambino di Sasi si alzò dalla sedia facendola
muovere come in preda a uno spasmo. Felice le tenne la zampetta morbida tra le
dita e mi ringraziò con un sorriso.
Raggruppai
le mie cose e voltandomi notai che ai lati della scala che un’ora prima avevo
sceso, c’erano due piccole porte. Lo notai solo perché due balie dell’età di sei,
sette, anni uscirono colme di una gioia ancora in stallo.
Una
di loro mi si avvicinò e mi offrì da bere, rifiutai e presi dall’altra il
pagamento generoso di Sasi.
Fiero
di me, uscii da quella casa che ora lascia entrare ogni singolo raggio di sole.
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